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Rassegna Stampa - L'Argomento di Oggi - dal 2010-05-09 ad oggi 2010-12-11 Sintesi (Più sotto trovate gli articoli)

Tra 100 anni gli idrocarburi non avranno più lo stesso ruolo nella nostra vita"

Scaroni: "Il solare è l'energia del futuro, ma non con queste tecnologie"

L'ad dell'Eni ha inaugurato al Mit di Boston il Solar Frontiers Center sulle nuove tecnologie solari

BOSTON - L'energia solare è la rinnovabile del futuro. Ne è convinto l'amministratore delegato dell'Eni, Paolo Scaroni, che ha inaugurato il 4 maggio al Mit di Boston il Solar Frontiers Center per promuove la ricerca sulle tecnologie solari avanzate attraverso progetti che spaziano dai nuovi materiali fotovoltaici alla produzione di idrogeno da energia solare. "Da questo progetto non ci aspettiamo risultati che impatteranno sui nostri conti economici nell'arco dei prossimi anni", ha precisato, "ma certamente il futuro è qui.

Ci auguriamo che Eni possa giocare un ruolo importante nelle energie alternative che rimpiazzeranno il petrolio".

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Dalessandro Giacomo

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Il Mio Pensiero (Vedi il "Libro dei Miei Pensieri"html PDF ):

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2010-05-10

Rassegna Stampa - L'Argomento di Oggi - dal 2010-05-09 ad oggi 2010-12-11

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2010-05-10

nel cantone elvetico le società dei gasdotti russi verso l'Europa e con la Serbia

Eni, i segreti di South Stream

nella scatola svizzera di Zug

La galassia delle società miste di Gazprom e i bilanci "flessibili"

nel cantone elvetico le società dei gasdotti russi verso l'Europa e con la Serbia

Eni, i segreti di South Stream

nella scatola svizzera di Zug

La galassia delle società miste di Gazprom e i bilanci "flessibili"

Alexander Medvedev, Gazprom export

Alexander Medvedev, Gazprom export

L'agenzia del turismo del Cantone di Zug raccomanda soprattutto il tramonto sul lago, "un'esperienza da non mancare". Oppure la vista dei giochi di luce sulla facciata della stazione ferroviaria, opera del californiano James Turrell. Difficile però che qualche centinaio di grandi "corporation" di tutto il mondo e di ricchi contribuenti siano confluiti verso la campagna, i laghi e i monti della Svizzera centrale solo per le attrazioni locali. Diciamola subito: a Zug si va perché si pagano poche tasse, e le aliquote fiscali per le aziende sono tra le più basse della Svizzera, e quindi d'Europa. Tra il 9 e il 15%. Ma non solo: il "tax ruling" locale dà alle società che decidono di installarsi nel Cantone la possibilità (teorica ovviamente) di confezionare bilanci che sarebbe un eufemismo definire incompleti e poco trasparenti. Qualche esempio di illustri "clienti fiscali"? A Zug, e nei suoi dintorni, hanno deciso di spostare la propria sede mondiale o europea grandi multinazionali americane. Così nel giro di pochi chilometri quadrati si ritrovano Foster Wheeler, Noble, Amgen. Il colosso del trading Glencore. Persino la Transocean, la società petrolifera responsabile del disastro del Golfo del Messico nell'estate scorsa, ha sede a Zug. Le grandi corporation sfruttano le agevolazioni cantonali, e così anche i loro manager.

I gasdotti

L'attrazione esercitata dalla Svizzera e da Zug non ha effetto solo sulle aziende occidentali. Gli oligarchi russi spuntati dopo la dissoluzione della vecchia Urss hanno ampiamente sfruttato le "opportunità" concesse dalle leggi e dal tax system elvetico. Le società intermediarie al 50% tra Gazprom e l'Ucraina nel corso del conflitto del gas dell'inverno 2005-06 (come la Centragas Holding) avevano sede in Svizzera, e ora sono da tempo liquidate. Per il colosso moscovita del gas, tuttavia, l'abitudine di servirsi dello Stato alpino per i propri affari è diventata un'usanza consolidata. Come nel caso del progetto South Stream, oggetto dei preoccupati "cable" delle ambasciate americane rivelati da Wikileaks. Il memorandum tra l'Eni di Paolo Scaroni e i russi viene siglato il 23 giugno 2007. Il 18 gennaio 2008 viene costituita la South Stream Ag, posseduta al 50% ciascuno da Gazprom e da Eni International Bv. Dove? A Zug naturalmente. Nello stesso luogo dove, dal dicembre 2005, si trova anche il veicolo societario per il gasdotto "Nord Stream", il fratello gemello sul fondale del mar Baltico che dovrà bypassare la Polonia, e che vede tra i soci la tedesca E.On e come presidente l'ex cancelliere Gerhard Schröder. Ancora: quando all'incirca un anno fa i russi chiudono il negoziato con la Serbia per il transito del South Stream si comportano nello stesso modo. Creano al 50% con Srbijagas la South Stream Serbia Ag, infilano in consiglio il capo di Gazpromexport Alexander Medvedev (solo omonimo del presidente Dmitri), quello di Srbijagas Dusan Bajatovic, e dove la piazzano? A Zug naturalmente. Curioso: in Serbia l'aliquota sui profitti "corporate" è già al 10%, e di meno in Europa non si trova, se si fa eccezione per il Montenegro (9%). Per i russi, evidentemente, in queste scelte giocano altri fattori, primo fra tutti la riservatezza, se si vuole utilizzare anche in questo caso un eufemismo. In Svizzera, dettaglio non da poco, le società non quotate in Borsa non hanno alcuno obbligo di deposito del loro bilancio, che rimane a disposizione esclusivamente dell'amministrazione finanziaria.

Costi a forfait

Focus su Zug, dunque. Dove ci si può immaginare che su mandato di Gazprom e Eni un esperto professionista locale abbia costituito la joint-venture in tre-quattro giorni e con una spesa di 7-8 mila franchi. "Diciamo che le autorità cantonali - commenta Tommaso di Tanno, docente di diritto tributario a Siena - hanno una "capacità dialettica" assai elevata nel negoziato con aziende e contribuenti facoltosi". Con vantaggi fiscali di tutto rilievo: una tassa federale dell'8,5% sugli utili alla quale se ne aggiunge una cantonale del 6,5%, che tuttavia le holding non pagano, visto che a Zug possono godere di regimi "privilegiati". Il tutto grazie alla "concorrenza fiscale" interna alla Svizzera, che fa sì che tra i quaranta luoghi migliori in Europa per non pagare le tasse una ventina siano cantoni elvetici. Ma, soprattutto, a far premio c'è la "flessibilità" sulla redazione dei bilanci, che per quanto riguarda attivi e profitti devono semplicemente soddisfare dei "principi di ordinata presentazione". Senza l'obbligo, quindi, di uniformarsi a standard internazionali riconosciuti, come quelli Ias o quelli americani Gaap. E in particolare - nel caso di aziende che operano "estero su estero" come è e sarà il caso di South Stream - è possibile trattare direttamente con l'amministrazione fiscale un forfait sui costi da riconoscere in bilancio. Una quota percentuale prefissata sui ricavi, detratta la quale resta l'imponibile su cui pagare le tasse. Un sistema che come si può facilmente immaginare lascerebbe un'autostrada davanti a chi volesse mettere in atto pratiche poco trasparenti o addirittura al di là della legge, come consulenze facili, o addirittura la costituzione di fondi. Questione delicata, e all'Eni comunque percepita, visto che nei bilanci la quota del 50% in South Stream Ag (che non è consolidata) compare con una sintetica noterella a margine: la società, si precisa, come altre partecipate svizzere del gruppo risulta ricadere nella "black list" stilata dal ministro Giulio Tremonti nel 2001. Tuttavia essa dichiara che "non si avvale di regimi fiscali privilegiati". Corretto, ma se alla fine South Stream Ag pagherà sugli utili l'aliquota svizzera "senza privilegi" (15%), o quella italiana, pare tutto sommato una questione secondaria rispetto alle domande che pone l'adozione di un sistema, diciamo così, "flessibile" di redazione dei bilanci.

Arriva Gazprombank

Sul versante Nord delle Alpi, però, negli ultimi tempi la partita Gazprom non si è giocata solo sulle joint-venture per i gasdotti. Da un anno e mezzo a questa parte, infatti, in Svizzera ha fatto la sua comparsa anche il braccio finanziario del monopolista di Mosca: Gazprombank, terzo istituto di credito della Russia, dove la casa madre energetica conta per il 41% del capitale e controlla sostanzialmente il board, presieduto da Andrey Akimov. Nel giro di pochi mesi Gazprombank ha messo a segno un paio di manovre che si intersecano con i vecchi scenari noti anche in Italia (caso Mentasti) e lasciano il sospetto che, forse per volontà del Cremlino, si siano ormai regolati diversi affari del passato. A metà 2009 Gazprombank ha acquistato da Vtb, la seconda banca russa, il controllo della Russian Commercial Bank, uno storico crocevia degli interessi russi in Europa occidentale. Ma meglio sarebbe dire che Gazprombank ha provveduto a un vero e proprio salvataggio della Rcb, visto che in pochi mesi ha dovuto sborsare tra garanzie e fondi supplementari 160 milioni di dollari. Rcb, dal 2006, era la controllante del fondo del Liechtenstein Idf, a sua volta controllante della Centrex austriaca ai tempi dello sfumato affare Mentasti. L'uno-due di Gazprombank, che sostiene di aver approfittato dell'occasione per accaparrarsi una banca che ha piena licenza operativa in Europa, ha di fatto azzerato anche i conti sospesi degli anni precedenti. Tra i fondi dei clienti della Rcb si è assistito nel corso del 2009 a una migrazione particolare: 600 milioni di dollari che risultavano attivi su Cipro, dove opera una Russian Commercial Bank Cyprus, sono improvvisamente rientrati verso Mosca. E in questi movimenti non sembrano essere coinvolti interessi esclusivamente russi.

Stefano Agnoli

10 dicembre 2010

 

 

2010-05-09

Tra 100 anni gli idrocarburi non avranno più lo stesso ruolo nella nostra vita"

Scaroni: "Il solare è l'energia del futuro, ma non con queste tecnologie"

L'ad dell'Eni ha inaugurato al Mit di Boston il Solar Frontiers Center sulle nuove tecnologie solari

"Tra 100 anni gli idrocarburi non avranno più lo stesso ruolo nella nostra vita"

Scaroni: "Il solare è l'energia del futuro, ma non con queste tecnologie"

L'ad dell'Eni ha inaugurato al Mit di Boston il Solar Frontiers Center sulle nuove tecnologie solari

BOSTON - L'energia solare è la rinnovabile del futuro. Ne è convinto l'amministratore delegato dell'Eni, Paolo Scaroni, che ha inaugurato il 4 maggio al Mit di Boston il Solar Frontiers Center per promuove la ricerca sulle tecnologie solari avanzate attraverso progetti che spaziano dai nuovi materiali fotovoltaici alla produzione di idrogeno da energia solare. "Da questo progetto non ci aspettiamo risultati che impatteranno sui nostri conti economici nell'arco dei prossimi anni", ha precisato, "ma certamente il futuro è qui. Ci auguriamo che Eni possa giocare un ruolo importante nelle energie alternative che rimpiazzeranno il petrolio".

SOLARE - "Il petrolio un giorno finirà: non presto, ma in circa cento anni gli idrocarburi non giocheranno più lo stesso ruolo nella nostra vita", ha evidenziato Scaroni spiegando le ragioni che hanno spinto Eni a investire nella ricerca sulle tecnologie solari avanzate. "Alcuni anni fa abbiamo deciso di studiare le tecnologie del solare del futuro e abbiamo lanciato questa iniziativa insieme al Mit, iniziativa che sta andando molto bene", ha aggiunto Scaroni. "I risultati sono molto promettenti: se solo il 10% di quello che ho visto qui a Boston diventasse operativo, si potrebbe cambiare il mondo". Eni ritiene che l'energia solare sia la rinnovabile che darà il maggior contributo in futuro ma, ha detto Scaroni, "la tecnologia solare usata oggi in Europa sembra inefficiente e costosa, serve qualcosa di differente. Le rinnovabili che sono a disposizione oggi non sono la risposta per il futuro: è per questo che dobbiamo studiare e investire".

La prima cella solare su carta (da Cnet)

La prima cella solare su carta (da Cnet)

NUOVE TECNOLOGIE - L'amministratore delegato dell'Eni ha mostrato una cella solare su carta, piccola come il palmo di una mano. "Occorre puntare su progetti come questo, perché le rinnovabili di oggi non sono la risposta del futuro", ha insistito. "Noi non crediamo nelle tecnologie odierne ed è per questo che abbiamo preferito investire in ricerca piuttosto che in progetti". Tra i risultati più notevoli ottenuti finora dal team Eni-Mit, figurano proprio i dispositivi realizzati con materiali nuovi e con possibilità di applicazione completamente originali e in gran parte inesplorate. Per un loro possibile utilizzo commerciali, ha avvertito Scaroni, bisognerà aspettare ancora qualche anno.

PROGETTI - L'alleanza con il Mit ha una durata quinquennale e comporta per Eni un investimento di 50 milioni di dollari. La collaborazione siglata nel febbraio del 2008 tra Eni e il Mit, si legge in una nota di Eni, nei primi due anni ha prodotto numerosi risultati: dalla realizzazione della prima cella solare Mit ultraflessibile alla prima cella solare al mondo stampata su carta; dai progressi nella produzione di contatti metallici allo sviluppo di celle solari che imitano il processo fotosintetico.

Redazione online

06 maggio 2010

 

 

 

 

REPUBBLICA

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2010-12-10

I DOCUMENTI DI WIKILEAKS

Berlusconi, Putin e quel biglietto

la vera storia del gas di Mosca

Chi è Valentino Valentini: nelle rivelazioni del sito di Assange sarebbe lui l'uomo ombra indicato dall'ambasciatore Spogli come intermediario d'affari del presidente del Consiglio in Russia. Le altre figure dei "fedelissimi" del premier e il loro ruolo

da Roma GIUSEPPE D'AVANZO

da Milano ANDREA GRECO

da New York FEDERICO RAMPINI

Berlusconi, Putin e quel biglietto la vera storia del gas di Mosca Silvio Berlusconi e Vladimir Putin

* Gas, da Yukos al Kazakistan gli affari tra Putin e Berlusconi

articolo

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* Berlusconi-Putin, condanna Usa "Si esporta corruzione in Europa"

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"VALENTINO Valentini, fino a qualche anno fa, non parlava il russo: diciamo che lo balbettava...", ricorda chi glielo ha sentito parlare a Villa Abamelek, la residenza dell'ambasciata russa a Roma. "Era il russo di un bambino ai primi anni della scuola elementare". Eppure, nelle rivelazioni di WikiLeaks (leggi il documento) 1, sarebbe lui la shadowy figure, l'uomo ombra indicato dall'ambasciatore Spogli come intermediario d'affari di Silvio Berlusconi in Russia. Allevato da Publitalia, assistente del Cavaliere al parlamento europeo, deputato dal 2001, oggi segretario particolare del premier, Valentini si autodefinisce "consigliere speciale per le relazioni estere e tutor delle imprese italiane in Russia". Ci hanno detto, appunto: "Per la conoscenza di quella lingua". Che però - almeno fino al 2005 - non conosce.

Infatti, a palazzo Chigi ha lavorato in pianta stabile (in attesa che le performance di Valentini migliorassero) un interprete, l'armeno Ivan Melkumian, sempre presente negli incontri pubblici e privati del Cavaliere. C'è un primo arcano da sbrogliare, allora: perché, con una noiosa cerimonia a Villa Abamelek, Valentini è stato insignito proprio nel 2005 del prestigiosissimo ordine di Lomonosov con motivazioni che non sono mai state rese note? Quali sono i meriti che egli ha raccolto per la Russia di Putin? La domanda è intrigante anche perché è difficile trovare un capitano d'impresa attivo in Russia che abbia incontrato per motivi concretamente professionali Valentini o abbia soltanto avuto eco delle sue attività a vantaggio delle imprese italiane. Alcuni italiani a Mosca - per dimostrare l'assoluta estraneità del segretario particolare del premier agli interessi della comunità italiana - raccontano come si svolgono le sue visite nella città degli zar. "Valentini sbarca in uno degli aeroporti di Mosca. Lo attende un'auto messa a disposizione da Antonio Fallico. E' il presidente di Zao Banca Intesa (sussidiaria del gruppo Intesa San Paolo) e cugino di Marcello Dell'Utri o almeno così va dicendo da decenni. Valentini raggiunge l'albergo - il Metropol di fronte al Bolshoi in Teatralny Proiezd - o, in alternativa, direttamente il Cremlino da dove riemerge qualche ora o qualche giorno dopo per ripartire verso l'Italia. Nessuno lo vede. Nessuno lo incontra. Nessuno sa che cosa sia venuto a fare". Tra quanti non lo sanno, ci sono anche gli americani. L'ambasciatore a Roma, Ronald Spogli, il 26 gennaio 2009, si chiede chi fosse davvero "l'uomo chiave di Berlusconi in Russia, che viaggia senza staff né segreteria diverse volte al mese. Non è chiaro cosa vada a fare a Mosca, ma ci sono pesanti indiscrezioni sul fatto che presidi gli interessi di Berlusconi in Russia". Bisogna dunque seguire il filo dei soggiorni moscoviti di Valentini per saperne di più. E' utile perché s'incontra un altro personaggio chiave degli imperscrutabili rapporti tra l'Italia di Berlusconi e la Russia di Putin: Antonio Fallico, una volta comunista, dal 1974 a Mosca dove lo chiamano "il professore" (titolo non usurpato, ha insegnato Letteratura barocca all'Università di Verona), anch'egli onorato il 21 aprile del 2008 da Putin con l'"Ordine dell'Amicizia dei Popoli", la più alta decorazione statale russa riservata ai cittadini stranieri.

Fallico può essere raccontato in modo speculare a Valentini. Se Valentini è l'uomo di Berlusconi a Mosca, Fallico è l'uomo di Putin in Italia. Cura gli interessi economici della Russia e quindi soprattutto gli affari energetici che rappresentano il 70% delle esportazioni verso l'Italia. La Zao Banca Intesa, che presiede, ha il mandato di advisory della Gazprom, il colosso energetico controllato direttamente dallo Stato, per tutta l'attività italiana, dalla vendita di gas al progetto di metanodotto South Stream. "Il professore" ha rapporti diretti con il Cremlino, con il premierato di Putin, con la presidenza di Dmitri Medvedev. E' console onorario della Russia a Verona (gli è stata concessa anche la possibilità di rilasciare visti). A Verona ha voluto che fosse inaugurata presto la sede della rappresentanza italiana della Gazprom. E' l'italiano più potente di Mosca.

Se si riuscisse a rendere trasparenti - di Fallico - le attività e - di Valentini - le missioni al Cremlino si potrebbe comprendere presto quanto siano legittimi o scorretti i sospetti di Hillary Clinton sulla natura affaristica delle convergenze politiche tra Berlusconi e Putin. Non è l'unico enigma di questa storia, protetta quasi in ogni angolo e increspatura dal segreto. Segreto di Stato sono in Russia gli affari energetici (per chi sgarra c'è la pena di morte). Misteriosi sono gli effettivi proprietari della Centrex Group, società che vende in Europa occidentale il gas russo, la cui catena azionaria finisce in una palazzina di tre piani al 199 di via Arcivescovo Makarios III a Limassol, Cipro, senza una targa né una buca delle lettere. Commercial secret è il prezzo del metano che Eni corrisponde a Gazprom. Segreti i documenti dei giacimenti di Karachaganakh e Kashagan che Eni si rifiuta di esibire anche quando è chiamata a risponderne in tribunale. Impenetrabile è il segreto che protegge gli incontri di Berlusconi e Putin lungo il lago tra le colline di Valdai in Novgorod Oblast o a Punta Lada a Porto Rotondo, in Sardegna.

Se si vuole quindi verificare quanto "le scelte economiche e politiche dei due premier siano il frutto di comuni investimenti personali", come chiede il segretario di Stato americano ai suoi ambasciatori, bisogna esaminare se le decisioni politiche siano state deformate da privatissimi interessi economici. C'è troppa gente in giro - nelle cancellerie, nei quartieri generali della finanza, nella comunità economica - che avverte nelle scelte di politica energetica dell'Italia un'alterazione equivoca. Eni era autonoma dal governo nazionale quasi fino all'arroganza. Oggi appare sottomessa al presidente del Consiglio. Agiva con aggressività e libertà sui mercati internazionali. Oggi mostra di subire vincoli a favore di Putin. E' la prima deformazione. Ce n'è una seconda: Berlusconi trascura le relazioni europee e la tradizionale alleanza con Washington per rinchiudersi nell'eccentrica associazione con la Mosca di Vladimir Putin e la Tripoli di Mu'ammar Gheddafi. I "cable" del dipartimento di Stato sostengono che questo riposizionamento non abbia nulla di politico, ma sia soltanto business. "L'ambasciatore della Georgia a Roma - scrive Spogli - ci ha riferito che il suo governo ritiene che Putin abbia promesso a Berlusconi una percentuale su ogni pipeline sviluppata da Gazprom in coordinamento con l'Eni". E ancora: "In Italia i partiti di opposizione e alcuni esponenti dello stesso Pdl credono che Berlusconi e i suoi intimi stiano approfittando personalmente e a mani basse dei molti accordi sull'energia con la Russia".

Dunque Washington non crede a un'alternativa trasparente che innova la tradizionale politica estera del nostro paese. Dubita che, al fondo della storia, ci siano soltanto gli affari personali di Silvio Berlusconi. L'accusa è gravissima e non è stata provata. E' un fatto che lo stato delle cose è custodito in un labirinto di segreti. Con l'aiuto di qualche persona informata dei fatti e alcuni testimoni diretti degli eventi, si può documentare però qualche coincidenza e più di un'incoerenza che dovrebbero convincere Berlusconi ed Eni a rompere il silenzio e a dare luce alle zone d'ombra. Ci sono perlomeno tre "casi" in cui si intravede, tra le opacità, una metamorfosi degli interessi nazionali.

1. Il biglietto del Cavaliere, dove si capisce a vantaggio di chi Berlusconi chiede un favore a Putin.

2. La "spartizione della refurtiva", dove questa volta è Putin a chiedere un "aiutino" a Berlusconi che non rimarrà a mani vuote.

3. I misteri di Karachaganakh, dove si scopre che Eni rinuncia a una parte dei suoi profitti, non si sa a vantaggio di chi.

Sono "casi" che anticipano, come vedremo, un sorprendente finale e non riescono a nascondere una contraddizione: tutti gli affari che rendono sospettosa l'amministrazione di Washington sono stati approvati dal secondo governo Prodi. Tra il maggio 2006 e il maggio 2008, il governo di centrosinistra sottoscrive l'accordo che disciplina la fornitura di gas e le future collaborazioni nei giacimenti in Russia (14 novembre 2006); l'impegno per il gasdotto South Stream (23 giugno 2007); la disponibilità a "spogliare" la Yukos dei suoi asset (4 aprile 2007); i contratti per lo sfruttamento del giacimento di Karachaganakh (1 giugno 2007). Una stupefacente inabilità che oggi, col senno del poi, solleva qualche mugugno tra gli uomini del centrosinistra e la sensazione che alcuni risvolti si sarebbero dovuti curare in modo diverso. Meglio. Dice Pier Luigi Bersani, segretario del Pd e allora ministro dello Sviluppo Economico: "Premesso che dall'approvvigionamento del gas russo l'Italia non può prescindere, il governo Prodi adottò la strategia di spostare il quadro degli accordi energetici con la Russia in una dimensione europea. La differenza fondamentale tra il nostro approccio e quello di Berlusconi nei rapporti con Mosca è che noi operavamo sulla base di meccanismi trasparenti, non dei personalismi, delle relazioni particolari o della filosofia tipo ghe pensi mi".

Il biglietto del Cavaliere

(dove si apprende come e a vantaggio di chi Berlusconi chiede un favore a Putin)

Prima che questo signore, Bruno Mentasti Granelli, settantenne finanziere lombardo, apparisse in scena soltanto uomini vicini a Silvio Berlusconi si erano messi in testa di lucrare larghi utili dalla commercializzazione in Italia del metano russo. Se si esclude il tentativo del figlio di un mafioso (Ciancimino), un primo progetto era stato preparato da Ubaldo Livolsi, consulente del premier, nel 1991 direttore finanziario e nel 1996 amministratore delegato di Fininvest Spa, consigliere d'amministrazione di Mediaset, Mondadori, Medusa.... Per farla corta, un berlusconiano di stretta osservanza. Inutile dire quanto berlusconiano sia Marcello Dell'Utri l'uomo che gli commissiona il piano e trova il tempo per scaldare l'attesa presentando, alla Casa dell'Amicizia di Mosca, Effetto Berlusconi, un libro confezionato in esclusiva per il mercato russo.

Con l'Eni di Mincato ancora autonoma dal governo, l'iniziativa di Livolsi e Dell'Utri va per aria. Dopo il fallimento del primo approccio berlusconiano al problema, compare dal nulla Bruno Mentasti già socio di Berlusconi nella pay-tv Telepiù e in quell'anno, 2003, un rentier dopo aver venduto alla Nestlé la San Pellegrino per trecento miliardi di vecchie lire.

Il nome di Mentasti salta fuori nella sera del 30 ottobre del 2003. Al Westin Palace di Milano c'è una cena di lavoro. E' quasi un appuntamento di routine. Quattro persone intorno al tavolo: tre uomini di Eni e un alto dirigente di Gazprom. Si confrontano due ambizioni: Eni vuole prolungare di 25/30 anni i suoi contratti gas che scadono nel 2012; Gazprom aspira a fare utili non solo "a monte" producendo metano, ma anche "a valle" vendendolo e chiede di avere l'opportunità di commercializzarne in Italia attraverso una propria joint venture. L'Eni dovrebbe cedere 2-3 miliardi di metri cubi di metano all'anno dalle sue importazioni. "Abbiamo già un socio italiano, ecco il suo nome...", dice il russo. Dalla tasca, l'alto dirigente di Gazprom estrae un fogliettino come se fosse una santa icona che da sola avrebbe spazzato via ogni dubbio profano. Sopra c'è scritto: "Mentasti". Gli italiani cadono dalle nuvole. Quel nome non l'hanno mai sentito. Chi è? Il russo spiega: "Ma come non conoscete il patron della San Pellegrino?". Gli italiani sorridono: "Anche se gassata, l'acqua ha poco a che fare con il gas, bisogna che qualcuno glielo spieghi a questo Mentasti...". Il russo non ride, agita ancora il foglietto e dice: "Druzia, amici, ma davvero non riconoscete la grafia del vostro capo di governo?". Quelli di Eni fingono di non capire e chiedono: "... ma questo biglietto con questa grafia chi te l'ha dato?". Risposta: "Da dove volete che venga, dal Cremlino!". A conferma che la faccenda è molto seria perché molto voluta da Putin, gli uomini di Eni vengono invitati a stringere le sedie intorno al tavolo per far posto a un altro convitato che attende un cenno nell'albergo dall'altra parte di piazza della Repubblica, il Principe di Savoia. L'uomo si chiama Alexander Ivanovic Medvedev, è un amico d'affari del professor Fallico, è stato come Vladimir Putin un colonnello del Kgb, oggi è il numero due di Gazprom. Che bisogno c'è di un intermediario se non per creare comode rendite finanziarie a oscuri fortunati? Dietro questa volontà di lucrare gli utili di un'intermediazione superflua e molto favorevole (la Centrex di Mentasti e soci misteriosi avrebbe guadagnato una somma stimata in 280-320 milioni di dollari l'anno per 15-20 anni) si scorgono nell'ordine: un comando di Putin; la volontà di Berlusconi; l'obbedienza "militare" dei gasisti russi; gli amici di Berlusconi in sospetto di essere soltanto prestanomi come Bruno Mentasti o addirittura di essere la testa d'ariete di Berlusconi, se è vero che quel foglietto (che potrebbe essere attualmente nelle mani di un uomo dell'Eni) è stato scritto di suo pugno dal Cavaliere.

Questo caso sollecita qualche domanda: Berlusconi ha discusso con Putin - e concesso a Mosca - l'ingresso di Gazprom nel mercato italiano? In cambio di che cosa? Perché Berlusconi individua Mentasti come uomo adatto per la nascente partnership? Qual era l'interesse nazionale che, in questo caso, il capo del governo ha rappresentato al Cremlino?

(1. continua)

(08 dicembre 2010)

 

 

 

 

L'INCHIESTA

Berlusconi-Putin, condanna Usa

"Si esporta corruzione in Europa"

Ecco l'analisi del Dipartimento di Stato sull'affare gas: la relazione personale del premier russo con quello italiano è funzionale a inoculare corruzione negli altri paesi e rendere il continente vulnerabile al ricatto energetico russo da Roma GIUSEPPE D'AVANZO, da Milano ANDREA GRECO, da New York FEDERICO RAMPINI

Berlusconi-Putin, condanna Usa "Si esporta corruzione in Europa" Berlusconi e Putin

* Gas, da Yukos al Kazakistan gli affari tra Putin e Berlusconi

articolo

Gas, da Yukos al Kazakistan gli affari tra Putin e Berlusconi

* Berlusconi, Putin e quel biglietto la vera storia del gas di Mosca

articolo

Berlusconi, Putin e quel biglietto la vera storia del gas di Mosca

"LE risorse energetiche sono il piedistallo del potere da cui Vladimir Putin punta a condizionare la politica europea. La relazione personale con Silvio Berlusconi è funzionale a questo: inoculare corruzione negli altri paesi, dividere l'Europa, renderla vulnerabile al ricatto energetico della Russia. Il semi-monopolista del gas russo Gazprom fa tutt'uno con Putin, nulla è trasparente in quella sfera, la corruzione è endemica". L'accusa dell'alto funzionario e massimo esperto del Dipartimento di Stato per "Eurasia e questioni energetiche", Jeffrey Mankoff, rende manifesta la gravità del rapporto tra i due premier italiano e russo.

"Rapporto personale". Così lo definisce il dispaccio da Roma dell'ex ambasciatore repubblicano Ronald Spogli, il 12 agosto 2008, reso pubblico da WikiLeaks. In un crescendo di allarme, Spogli segnala alla Casa Bianca e al Dipartimento di Stato l'ipotesi che fra i due vi siano "rapporti di guadagno personale" (novembre 2008). Infine in una lunga relazione del 26 gennaio 2009, l'ambasciatore evoca "una torbida connection"; chiama in causa l'intermediario d'affari Valentino Valentini; descrive il presidente del Consiglio come "il portavoce di Putin".

Sostiene Mankoff: "Poiché i libri contabili di Gazprom non sono di dominio pubblico, la società è in grado di fare affluire pagamenti ai politici nei paesi "a valle", perché assecondino i piani della Russia. I progetti dei gasdotti, con miliardi di dollari di investimenti, sono il meccanismo privilegiato per una corruzione su vasta scala". E' la chiave delle ripetute pressioni di Hillary Clinton sulle due ambasciate americane a Roma e Mosca (l'ultima il 28 gennaio 2010). Il segretario di Stato chiede di indagare su "quali investimenti personali" uniscano Berlusconi a Putin.

Sono quattro le ragioni che lo impongono: 1. Il ruolo dell'Eni ridotto a strumento. 2. I dubbi sull'investimento anti-economico nel gasdotto South Stream. 3. La vicenda del "portage finanziario" italiano sulla Yukos. 4. Lo sconcertante allineamento filo-russo di Berlusconi sulla guerra in Georgia. Ecco gli elementi che accrescono l'inquietudine americana. La Clinton è convinta che "sia in gioco un interesse strategico e vitale degli Stati Uniti, la sicurezza dell'Europa occidentale". Washington avverte il rischio che un alleato storico della Nato come l'Italia sia scivolato su una china pericolosa. Non siamo più alla fisiologica divergenza di stagioni passate della politica estera italiana. E' una distinzione fondamentale e il Dipartimento di Stato vuole che sia percepita e compresa. Dall'Eni di Enrico Mattei alla Fiat di Valletta (Togliattigrad), per finire con Giulio Andreotti alla Farnesina, gli americani ricordano che l'Italia ha sempre avuto spazi di autonomia nelle sue iniziative verso la Russia o il mondo arabo. Tutto comprensibile alla luce della nostra posizione geografica, e per i condizionamenti politici interni come l'esistenza del più forte partito comunista dell'Europa occidentale (lo ricorda anche l'ambasciatore Spogli nei suoi rapporti). Era un gioco che non spaventava l'America perché si poteva interpretare - e quindi governare - con i criteri della geopolitica e della geoeconomia. Oggi il quadro è diverso.

I sospetti che la relazione speciale Berlusconi-Putin abbia una dimensione extrapolitica, guidata dal "guadagno personale che fa premio", affiorano due anni fa. L'ambasciata di Via Veneto vi accende un faro. Il fatto che il presidente del Consiglio di un paese della Nato possa essersi fatto strumento del premier russo s'inserisce nello scenario disegnato da Mankoff di un "rischioso ritorno di Putin alla presidenza nel 2012", alla testa di un blocco di potere dominato da "esercito e servizi segreti anti-occidentali", sullo sfondo di una Russia che le informative dall'ambasciata Usa di Mosca descrivono come una "nazione mafiosa".

"Eurasian Energy Security", è il rapporto cruciale dove il Dipartimento di Stato suggerisce di cercare tutte le ragioni dell'allarme attorno al caso Berlusconi-Putin. Considerato come la Bibbia della strategia americana sui rapporti energetici tra la Russia e l'Europa, quel dossier è firmato da Jeffrey Mankoff per il Council of Foreign Relations, il think tank bipartisan che ha spesso ispirato la politica estera di amministrazioni repubblicane e democratiche. Mankoff lo mette a punto nel 2009 come Associate Director of International Security Studies all'università di Yale. In seguito torna a lavorare per il Dipartimento di Stato, con Hillary Clinton. Oggi si occupa proprio delle relazioni Europa-Russia.

L'analisi di Mankoff muove dal ruolo di Gazprom, "un'impresa che a tratti s'identifica con lo stesso governo russo, funzionale al disegno di Putin di gestire i rapporti con l'Europa giocando un paese contro l'altro". E' la strategia che Putin ha costruito pazientemente negli otto anni della sua presidenza, dal 2000 al 2008: "Il gas è diventato centrale come strumento di potere". Una strategia di cui l'Italia è un tassello decisivo perché "con la Germania rappresenta quasi la metà di tutte le importazioni di gas russo nell'Europa occidentale". Insieme, questi due paesi generano "il 40% dei profitti totali di Gazprom". Un colosso che, per la sua natura, si sottrae a "sistemi di regole trasparenti, controllo giudiziario e delle authority di vigilanza" dell'Unione europea.

Visto dall'America il pericolo è questo: "Per l'Europa la crescente dipendenza energetica da un singolo gruppo che coincide con un governo straniero solleva dei problemi di sicurezza, trasparenza, potenziale manipolazione politica". Chi, come l'Italia, finisce in una "intima relazione politica con Mosca rischia di assecondare i disegni di questa, a scapito dell'unità fra europei". Il sospetto che l'Eni sia stato trasformato in uno strumento nel rapporto tra Berlusconi e Putin, è legato ad alcuni passaggi decisivi nella "blindatura" del potere energetico in Russia. Mankoff ricorda come "durante il suo secondo mandato presidenziale, Putin ha accelerato in modo drammatico la concentrazione del business di petrolio e gas dentro i campioni nazionali Gazprom e Rosneft. Le imprese che appartenevano agli oligarchi privati, come la Yukos di Mikhail Khodorkovsky, sono state fagocitate". La stessa Yukos che fu oggetto di un portage finanziario da parte dell'Eni e dell'Enel. Pochi gruppi occidentali sono ammessi in questo gioco, osservano al Dipartimento di Stato, dove ricordano l'espulsione di Bp e Shell costrette a uscire dai loro maggiori investimenti energetici in Russia durante la presidenza Putin. Vedremo presto il ruolo che Berlusconi decide di assumere in questa spoliazione.

Una volta concentrato il suo impero energetico, dove politica e affari coincidono e solo gli stranieri docili sono ammessi, Putin passa alla seconda fase della strategia. "Si tratta - spiega Mankoff - di impedire l'accesso diretto dell'Europa alle risorse energetiche del Caspio, suddivise perlopiù tra Azerbaijan, Kazakistan, Turkmenistan. Riservare alla Russia il controllo sui corridoi di transito verso il Caspio, accentua una dipendenza dell'Europa. Questo ha conseguenze strategiche sulle relazioni atlantiche, espone i nostri alleati europei all'influenza di Mosca".

Ancora una volta questa strategia è affidata a "un piccolo gruppo di colossi di Stato come Gazprom, sprovvisti di ogni trasparenza". Ecco il nodo che interessa la Casa Bianca e la Clinton. Ecco la ragione per cui si vuole veder chiaro nei rapporti Eni-Gazprom, come sono andati evolvendosi sotto i governi Berlusconi. Ecco la leva degli interrogativi sulla proliferazione di società di intermediazione, senza una vera razionalità economica, possibili paraventi per l'erogazione di tangenti. E' il passaggio che inquieta nell'analisi di Mankoff capace di alzare il livello di diffidenza del Dipartimento di Stato: "La corruzione sistemica nel settore energetico russo inocula corruzione nella politica europea".

Legittima la domanda: chi ha ceduto a queste lusinghe, in quali modi? A Washington ricordano il caso dell'ex cancelliere tedesco Gerhard Schroeder, cooptato come presidente del consiglio d'amministrazione del consorzio Nord Stream: il sistema di gasdotti voluto da Mosca, gemello settentrionale del progetto South Stream. Per quest'ultimo, Romano Prodi ha di recente rifiutato un'offerta analoga che gli era stata rivolta dai russi. Il Dipartimento di Stato ribadisce l'accusa principale rivolta dagli Stati Uniti: "Nord Stream e South Stream sono funzionali a rafforzare l'influenza della Russia in Europa. La nostra paura è rafforzata dagli indizi di corruzione che partono dal Cremlino". South Stream è in diretta concorrenza con il progetto Nabucco: solo quest'ultimo consentirebbe di aggirare la Russia. Se la scelta fosse affidata a criteri puramente economici, sarebbe semplice: "South Stream costa fino al doppio, rispetto a Nabucco", osserva Mankoff. E allora perché il coinvolgimento dell'Eni in un progetto anti-economico, si chiedono gli americani? Visti da Washington, i conti non tornano. E non tornano, come vedremo, anche per Eni.

Un colpo duro all'affidabilità del Nabucco viene dato nell'estate del 2008 dalla guerra tra Russia e Georgia: quel gasdotto per operare ha bisogno di stabilità in Georgia ed altre repubbliche ex-sovietiche. Perciò un punto di svolta nell'attenzione del Dipartimento di Stato verso Berlusconi coincide proprio con la guerra del 2008, e la posizione filo-russa presa dal premier italiano in divergenza con gli altri governi della Nato. E' il 15 novembre 2008. L'ambasciata di Via Veneto segnala a Washington una nuova soglia nel livello di agitazione degli americani. Bisogna dire di un antefatto: tre giorni prima il premier italiano ha dato spettacolo a una conferenza stampa in Turchia. "Ha accusato gli Stati Uniti di avere provocato la Russia con il riconoscimento del Kosovo, lo scudo anti-missili, l'invito a Ucraina e Georgia ad avvicinarsi alla Nato". Il dispaccio al Dipartimento di Stato indica che siamo "al culmine di un'escalation di commenti incendiari e dannosi a favore della Russia da quando Berlusconi è tornato al governo". L'ambasciata descrive Gianni Letta e Franco Frattini "sgomenti", i fedelissimi del premier confidano alla diplomazia americana: "Non ci ascolta, sulla Russia fa da solo".

Il rapporto segreto raccoglie per la prima volta il sospetto che "Berlusconi e i suoi accoliti abbiano rapporti di guadagno personale con l'interlocutore russo". E' a questo punto che i sospetti sulla "torbida relazione" diventano un problema strategico di primaria importanza per Washington. La criticità della guerra in Georgia dovrebbe aumentare la compattezza degli europei e rendere evidenti i rischi connessi a un'eccessiva dipendenza energetica da Mosca. Al contrario, l'Italia si smarca. Rompe la solidarietà atlantica. Si avvicina alla Russia. Siamo a una svolta. Il primo effetto è l'imperativo di saperne di più su quei sospetti di "investimenti personali tra Berlusconi e Putin", che possono diventare il motore delle scelte della politica estera italiana. Il pericolo lo abbiamo sotto gli occhi: l'Italia può trasformarsi in una pedina del grande gioco di Putin; il grimaldello per dividere o tenere divisa l'Unione europea, per avvantaggiarsi della debolezza dei singoli partner nei rapporti bilaterali. Osserva Mankoff: "La dipendenza dal semi-monopolio russo nel gas può mettere i singoli governi europei in una posizione in cui diventa impossibile resistere alle richieste politiche di Mosca". "La Russia - è la linea del Dipartimento di Stato - va integrata in un quadro trasparente di sicurezza energetica. Con regole certe, che limitino la possibilità di estrarre vantaggi politici unilaterali". E' l'opzione a cui fanno ostacolo le reti di interessi invisibili, oscuri intermediari, società-ombra, e gli "investimenti personali" su cui la Clinton si ostina a volere fa luce. E' quello di cui ora ci si deve occupare.

(2, continua)

LEGGI LA PRIMA PUNTATA DELL'INCHIESTA 1

(09 dicembre 2010)

 

 

 

L'INCHIESTA

Gas, da Yukos al Kazakistan

gli affari tra Putin e Berlusconi

Gas connection, i segreti della spartizione. Quali i vantaggi per il Paese della relazione tra i due? Chi sono i reali beneficiari dell'intreccio? Un esponente del board di Gazprom riferisce di un investimento del premier italiano in un giacimento kazako

da Roma GIUSEPPE D'AVANZO, da Milano ANDREA GRECO, da New York FEDERICO RAMPINI

Gas, da Yukos al Kazakistan gli affari tra Putin e Berlusconi

* Berlusconi, Putin e quel biglietto la vera storia del gas di Mosca

articolo

Berlusconi, Putin e quel biglietto la vera storia del gas di Mosca

* Berlusconi-Putin, condanna Usa "Si esporta corruzione in Europa"

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Berlusconi-Putin, condanna Usa "Si esporta corruzione in Europa"

Si deve ricordarlo, parliamo della corruzione negli affari energetici. Di come, per usare le parole del Dipartimento di Stato, "la relazione tra Putin e Berlusconi sia funzionale a inoculare corruzione negli altri Paesi, dividere l'Europa, renderla vulnerabile al ricatto energetico della Russia". Questo lo sfondo. Ora un dettaglio: c'è un biglietto autografo di Berlusconi. Il Cavaliere lo consegna nelle mani di Putin per indicare un "signor Nessuno" (Bruno Mentasti) come la testa di legno - di chi? di Berlusconi stesso? di una consorteria amica e quale? - che dovrà favorire l'ingresso dei russi nel mercato italiano. Quel biglietto autografo è un'impronta digitale. È il sigillo di un metodo che consiglia a Hillary Clinton di chiedere notizie della "torbida connection" tra Putin e Berlusconi segnalata dall'ambasciatore a Roma, Ronald Spogli. Mostra abitudini costanti.

Gazprom "che fa tutt'uno con Putin" dirotta - denuncia il Dipartimento di Stato - "pagamenti ai politici nei paesi "a valle" perché assecondino i piani della Russia". Queste parole descrivono con cura l'"affare Mentasti". Fallito il colpo gobbo, condotto con troppa rozzezza, le grandi manovre non s'interrompono. Tracce di corruzione si avvistano, per lo meno, in altre due storie che vale la pena raccontare.

"La spartizione della refurtiva"

(dove, questa volta, è Putin a chiedere un "aiutino" a Berlusconi)

Se parliamo di politica energetica, si confrontano due argomenti tra Europa e Russia. Gli europei in coro chiedono ai russi di giocare con le stesse regole. I russi dicono a ciascuno degli europei: ti do il gas, se mi fai entrare nel tuo mercato. Berlusconi accetta le pretese di Putin. Se necessario, corre a dargli una mano. Sostiene, per esempio, il premier russo quando, nel novembre del 2003, Vladimir Vladimirovic caccia in galera Mikhail Khodorkovskij, l'uomo più ricco di Russia, proprietario della quinta compagnia petrolifera del mondo, la Yukos. Le accuse parlano di frode fiscale e appropriazione indebita - in pochi giorni gli sequestrano il suo 40 per cento di azioni Yukos - ma in realtà, come tutto il mondo sa, Khodorkovskij paga la decisione di finanziare la campagna dei partiti di opposizione a Putin. Berlusconi è l'unico leader occidentale a trovare legittimo l'agguato "sovietico" dell'amico del Cremlino. Un giudizio che ribadisce il 20 maggio 2004. Un paio di mesi ancora - è ormai novembre - e il Cavaliere accompagnato da tre ministri ritorna a Mosca per occuparsi ancora di energia. Come scrive Lorenzo Gianotti in una biografia di Putin di prossima pubblicazione, un quotidiano moscovita (Izvestija) svela (9 novembre 2004) che il possibile acquirente di Menatep (la società finanziaria cui fanno capo gli attivi di Yukos) è "il primo ministro e confidente di Putin, Silvio Berlusconi". È un fatto che il Cavaliere si dà molto da fare per convincere Vittorio Mincato (allora amministratore delegato di Eni) a partecipare all'affare. Mincato non ne vuole sapere, resiste, e oggi c'è chi può raccontare come tra Mincato e Stefano Cao (allora direttore generale di Eni) il motto in quei giorni fosse "non partecipiamo alla spartizione della refurtiva". Via Mincato e nel cono d'ombra Cao, il quadro cambia. Eni e Enel saranno le uniche società occidentali che acquisiranno asset della Yukos di Khodorkovskij e la fetta più grossa: il 20 per cento delle azioni di Gazpromneft' per 4,2 miliardi di dollari. Un caso da manuale di portage finanziario (Eni acquista asset a proprio nome, in realtà si impegna a cederli successivamente a Gazprom). Per dirla nel modo schietto dei testimoni di quell'affare, un classico di "spartizione della refurtiva" sottratta a Khodorkovskij. Con la grottesca appendice - emersa dai dispacci diplomatici pubblicati da WikiLeaks - di un appello in extremis di Berlusconi a Putin per garantire il riacquisto a prezzi adeguati da parte di Gazprom: nel 2009 il prezzo del gas è talmente basso che il braccio energetico del Cremlino è in difficoltà nell'esercizio di quell'opzione call.

Questi i fatti. Ora una domanda: che interesse ha l'Italia a prestarsi al saccheggio dell'impero Yukos, uno dei tanti, troppi episodi opachi dell'attività del Cane a sei zampe in Russia? Le malignità a Mosca nella comunità dei tecnici degli affari energetici si sciupano. Uno "scambio" ci sarebbe stato. Diverse fonti ritengono che proprio qui potrebbe risiedere, protetto dal segreto di Stato, l'interesse personale di Berlusconi. Un membro del board di Gazprom e un suo assistente hanno confessato a un interlocutore che Repubblica ritiene attendibile che, in cambio dell'appoggio all'espansione in Europa occidentale di Gazprom, Putin abbia aperto a Berlusconi la strada ai giacimenti di gas pre-caspici in Kazakistan; metano poi depurato nella vicina centrale russa di Orenburg e lì immesso nei tubi verso Occidente. E' una ricostruzione meticolosa che è impossibile verificare con fonti indipendenti e facilmente sarà smentita. Qui se ne dà conto per comprendere meglio il discredito che circonda - anche in Russia - l'"amicizia" tra Berlusconi e Putin. Dunque, a metà del decennio Duemila, il Cavaliere avrebbe investito, in uno dei giacimenti contigui al grande bacino di Karachaganakh oltre mezzo miliardo di dollari, per un rendimento annuo che, alle attuali (e calanti) valutazioni di mercato, potrebbe fruttargli tra i 100 e i 130 milioni di dollari l'anno di profitto. Il flusso di denaro finirebbe sul conto corrente di una banca russa, intestato a una fiduciaria locale appartenente a una società straniera. Se fosse davvero così, se davvero al Cavaliere fosse stato permesso di partecipare all'estrazione e alla vendita in Europa di quel gas, per Eni oltre al danno si aggiungerebbe la beffa, visto che in quell'area il gruppo italiano è padrone di miliardi di metri cubi di gas, ma non è mai riuscito a esportarlo nei ricchi mercati occidentali. Eni si è sempre dovuta accontentare di cederlo.

 

I misteri di Karachaganakh

(dove si scopre che Eni rinuncia a una parte dei suoi profitti, non si sa perché)

La storia è più o meno questa. A sfruttare quest'immenso campo di gas condensato (petrolio leggero) e metano è un consorzio controllato per il 32,5 per cento a testa da Eni e British Gas; 20 per cento Chevron Texaco; 15 per cento Lukoil. In attesa del completamento del gasdotto Blue Stream (gioiello della maestria ingegneristica dell'italiana Saipem, che dalla Russia meridionale raggiunge Ankara sotto il Mar Nero), si pattuisce di cedere la materia prima semilavorata ai russi. Ma nel 2003 il "Blue Dream" - come lo chiamano, superbi, gli americani - diventa realtà, senza ospitare il gas "italiano" di Karachaganakh. Gli accordi sono riscritti nel giugno 2007: in base al nuovo dettato, Eni e il consorzio venderanno dal 2012 a una compartecipata russo-kazaka 16 miliardi di metri cubi l'anno di raw gas a un valore stimabile in 50 dollari per unità di mille metri cubi, mentre in Europa il prezzo del prodotto finale è sui 300 dollari. Ai 50 dollari vanno aggiunti i costi di depurazione e trasporto. Più o meno, altri 150 dollari. Dunque, mille metri cubi di gas costano 200 dollari circa. A conti fatti il minore introito è di 19 miliardi di dollari per il consorzio; e un terzo per l'Eni. Perché gli italiani rinunciano a questa montagna di quattrini? A vantaggio di chi? Mario Reali, per un paio di decenni l'uomo a Mosca dell'Eni, insieme al vice direttore generale Pietro Cavanna propone nel 2003 di costruire apposta una raffineria Eni in Kazakistan. Per due anni i manager italiani si scontrano con la feroce contrarietà dei russi, e anche l'ipotesi di cercare sbocchi nel futuro gasdotto Nabucco naufraga per il niet del Cremlino. Paolo Scaroni. amministratore delegato di Eni, forse dovrebbe spiegare ai suoi investitori perché ha ceduto su quegli accordi al ribasso. Reali già nel 2007 a Report dichiarava: "Quel gas che l'Eni svende potrebbe essere inviato in Italia tramite il gasdotto russo-ucraino-slovacco che arriva a Baumngarten (Tag). Perché si regalano ad altri quei soldi?".

Riepiloghiamo. Abbiamo appreso come ci siano molti modi per "inoculare corruzione" nell'Europa occidentale a vantaggio degli interessi russi. Sappiamo che qualche risvolto riguarda l'Italia, Berlusconi, Eni. Concessione di giacimenti metaniferi da sfruttare in proprio. Svendita del gas venduto a basso costo per concedere agli intermediari di tagliarsi una fetta di torta. E' ora di avviarsi a una conclusione.

Epilogo con sorpresa e qualche domanda

(dove si apprende che al Cremlino la parabola di Berlusconi è in declino)

Sono indizi, in fondo. I soli che è possibile, al momento, estrarre dal calderone di segreti che proteggono il business energetico. Ricordiamo i segnali e che cosa ci dicono. Un foglio scritto a mano da Berlusconi. Un suo amico, senza arte né parte, candidato ad arricchirsi senza muovere paglia, non si sa a nome di chi, ma si conosce grazie a chi. Ancora. Le chiacchiere intorno alle quote personali del Cavaliere in un giacimento in Kazakistan, i margini intascati dalla sua vendita in Occidente, curata dai russi. Infine, i cento dollari per ogni mille tonnellate di metri cubi di gas intascati lasciati misteriosamente ai russi e ai kazaki. Si potrebbero ricordare altre questioni: il progetto South Stream ad esempio perché, come ha spiegato a Repubblica un alto funzionario del Dipartimento di Stato, Jeffrey Mankoff, "i gasdotti, con miliardi di dollari di investimenti, sono il meccanismo privilegiato per una corruzione su vasta scala". South Stream, il gasdotto sotto il Mar Nero fortemente voluto dai russi, è talmente faraonico, costoso e - dopo i recenti ribassi del prezzo del gas - diseconomico che Eni s'è affrettata a cedere quote del consorzio costruttore (dove affiancava Gazprom con il 50%). Mercoledì sera, a cena con la stampa italiana a New York, il presidente dell'Eni Roberto Poli ha accennato alla possibilità di un dietrofront nel progetto, valutata la sua effettiva convenienza.

L'affare Mentasti, la spoliazione di Yukos, il progetto South Stream portano alla luce qualche filo: Berlusconi si muove a Mosca più come imprenditore di se stesso che come capo del governo anche se, come capo del governo, abusa della sua autorità politica per condizionare gli affari di Eni in Eurasia e coccolarsi così Putin, un alleato che per molti ragioni può essergli utile. Silvio e Vladimir Vladimirovic hanno in comune, con Winston Churchill, la convinzione politica che "la democrazia funziona quando a decidere sono in due e uno è malato" e la certezza economica che "non esiste amicizia, esistono soltanto interessi comuni". È quest'ultimo convincimento che ha cominciato a erodere, al di là degli abbracci di convenienza, il loro sodalizio politico-economico.

Il premier russo comincia a credere che con Berlusconi nei dintorni i suoi interessi possano soffrirne. Putin - dice chi ha modo di frequentarlo - è infastidito dal clamore che accompagna Berlusconi nel mondo, contrariato dalle sue dichiarazioni pubbliche spesso maldestre, irritato dalla presunzione e dalla vanagloria dell'italiano che vanta un potere che non ha e successi che non sono i suoi. Come quando, scandalizzando il Cremlino e i media russi, Berlusconi promise in un'intervista in Olanda che "se Putin avesse lasciato la politica", lo avrebbe "preso a lavorare" con lui. O, appena ieri, quando il Cavaliere si è gloriato di aver ottenuto lui, per conto dei russi, i Mondiali di calcio del 2018 a Mosca. È il ruolo del mattatore che ormai i russi beffeggiano. Chiamano Berlusconi, dyadya, zio, che detto da un bambino a un estraneo è un segno di rispetto, detto dagli adulti a un uomo di settantaquattro anni e soprattutto primo ministro è quasi un dileggio. Il fastidio del Cremlino per Berlusconi è "destinato ad avere anche una consistenza pubblica - sostiene una qualificata fonte italiana che vive a Mosca - se il governo di Berlusconi dovesse avere difficoltà o addirittura cadere". Per comprendere come le azioni in Russia del Cavaliere siano in ribasso, bisogna ritornare da dove siamo partiti, a Valentino Valentini. Per anni "intermediario segreto" tra il Cavaliere e Putin, oggi il segretario particolare di Berlusconi appare agli osservatori italiani a Mosca "in disgrazia". Rivela un'autorevole fonte bancaria che "l'ultima volta che, tre settimane fa, Valentini è venuto al Cremlino per preparare il summit di Sochi non è stato ricevuto dall'omologo assistente di Putin anche se si è intrattenuto nella capitale per due-tre giorni". Non aiutano la fortuna dell'Italia da quelle parti i mediocri affarucci che, lungo le rive del Mar Nero, Valentini ha messo su con un personaggio italiano, Pier Paolo Lodigiani, come lui emiliano, già fallito in Italia e malvisto a Mosca ma, con il ritorno a Palazzo Chigi di Berlusconi, nominato nell'agosto del 2008 "console generale onorario della Repubblica italiana delle regioni di Krasnodar e Stavropol, della repubblica di Daghestan, Inguscezia, Cecenia". Sono circostanze che nuocciono a Berlusconi che ci mette del suo. Due esempi. Il Cavaliere pare che abbia "ossessivamente chiesto a Vladimir Vladimirovic di trovare un oligarca che gli compri il Milan allo strabiliante prezzo di un miliardo di euro e Villa Certosa per 50 milioni". Quando è diventato pubblico il cable che definisce il presidente Dmitri Medvedev "un apprendista di Putin", nessuno a Mosca si è meravigliato che la moglie Svetlana Vladimirovna Medvedeva non si sia curata della smentita del nostro capo di governo e abbia confessato ai suoi amici: "Usciranno presto dispacci molto più compromettenti sulle dichiarazioni di Berlusconi".

Il nostro capo di governo è riuscito a screditarsi agli occhi dell'alleato americano per gli affari, anche personali, intrecciati con Putin e, nello stesso tempo, a irritare Vladimir Vladimirovic per lo stesso motivo: una smania ossessiva di business che pare non trovare mai un limite. Impresa stupefacente.

Berlusconi, anche nella veste di maggior azionista di Eni attraverso il Tesoro, può chiudere questo caso in fretta rispondendo alle domande più elementari. Qual è la missione degli intermediari che rappresentano al Cremlino le sue volontà? Chi erano i veri beneficiari del "progetto Mentasti" e dov'era qui l'interesse nazionale? Quali sono gli interessi nazionali che ha curato e cura con Putin? Quali utili ne ha ricavato Eni? Quali benefici ne hanno ricevuto consumatori e imprese? Quali vantaggi, le nostre alleanze in Europa e in Occidente?

(3. fine)

LEGGI LA PRIMA PUNTATA DELL'INCHIESTA 1

LEGGI LA SECONDA PUNTATA DELL'INCHIESTA 2

(10 dicembre 2010)

 

 

 

L'UNITA'

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2010-05-09

il SOLE 24 ORE

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2010-12-11

Smentita la concorrente che accusò Eni di tangenti

di Claudio GattiCronologia articolo11 dicembre 2010

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Questo articolo è stato pubblicato il 11 dicembre 2010 alle ore 10:39.

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Nella vicenda dei giacimenti petroliferi ugandesi del Lago Albert gli elementi della miscela esplosiva ci sono tutti: l'oro nero, l'affare da miliardi di dollari e dei governanti con un pedigree non esattamente al di sopra di ogni sospetto. E le polemiche che si trascinano da anni.

 

Il più recente sviluppo è arrivato ieri. La pubblicazione dell'ennesimo messaggio diplomatico americano da parte di WikiLeaks ha infatti portato alla luce accuse di mazzette pagate dall'Eni per entrare nel deal. Successivamente però contraddette dai fatti. Alla base di tutto è il resoconto di un incontro avuto il 14 dicembre 2009 dall'ambasciatore americano Jerry P. Lanier con Tim O'Hanlon, il vice presidente della Tullow, la società irlandese che aveva il controllo dei due campi petroliferi in questione assieme alla inglese Heritage Oil.

All'epoca di quell'incontro, l'Eni sembrava destinata a vincere la gara per l'acquisizione del 50% di quei campi messo in vendita da Heritage. La cifra offerta il 18 novembre 2009 non era stata da poco: 1,5 miliardi di dollari. Ma O'Hanlon aveva detto all'ambasciatore che per assicurarsi la vittoria l'Eni aveva pagato due ministri, quello della sicurezza Amama Mbabazi e quello dell'Energia Hilary Onek. E aveva spiegato come: attraverso una società di facciata creata a Londra e chiamata Tkl Holdings.

"Se le accuse della Tullow fossero vere - e noi crediamo lo siano - sarebbe uno sviluppo critico per il nascente settore petrolifero dell'Uganda", era stato il commento del diplomatico americano. L'ambasciatore aveva sottolineato anche che Exxon avrebbe potuto essere il partner di Tullow al posto dell'Eni. Glielo aveva detto lo stesso O'Hanlon, il quale aveva informalmente rivelato che la compagnia americana era nella short list di potenziali soci fatta dalla Tullow assieme a Total e alla cinese Cnooc.

 

Il problema è che né il registro delle società inglesi né i successivi sviluppi della vicenda confermano in alcun modo lo scenario presentato da O'Hanlon agli americani. Perché a Londra non sembra esistere alcuna società chiamata Tkl Holdings. Ma soprattutto perché, poco più di un mese dopo l'incontro nell'ambasciata Usa di Lagos e per la precisione il 17 gennaio 2010, Tullow decideva di esercitare il proprio diritto di prelazione sulla quota di Heritage e qualche giorno dopo l'Eni ritirava la sua offerta. Insomma, il giacimento è finito interamente nelle mani della Tullow. A dispetto delle supposte tangenti.

Quest'ultima contraddizione è stata messa in evidenza ieri dal ministro ugandese Onek, che in una dichiarazione alla Reuters ha detto: "Se abbiamo preso tangenti, come mai non abbiamo poi dato questi asset all'Eni?". Secca la reazione di un portavoce della compagnia petrolifera italiana: "Eni contesta le gravi affermazioni prive di ogni fondamento e ha dato mandato ai propri legali di avviare le azioni a tutela della propria immagine".

Il bello è che a un anno dall'accordo, Tullow non solo non ha ancora firmato il necessario accordo con un partner strategico - né Exxon né nessun altro - ma ha perso uno dei due campi, revocato dal governo ugandese per scadenza dei termini dei diritti. E di nuovo disponibile sul mercato.

 

 

Anche per Putin "dicerie ridicole"

di Antonella ScottCronologia articolo3 dicembre 2010

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Questo articolo è stato pubblicato il 03 dicembre 2010 alle ore 09:53.

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La bufera WikiLeaks ha trovato Silvio Berlusconi ancora una volta sulla strada di Vladimir Putin, diretto a Soci dove oggi presiederà con Dmitrij Medvedev al settimo vertice intergovernativo Italia-Russia. Ministri e imprenditori, economia e affari internazionali: e naturalmente, un "fuori programma" con il primo ministro, un pranzo a tre a rischio solo perché Putin è saltato sull'aereo per Zurigo non appena ha avuto la notizia che la sua Russia ospiterà i Mondiali 2018. Di colpo, le accuse lanciate a Mosca attraverso WikiLeaks sono finite in secondo piano.

Le prime notizie pubblicate nei giorni scorsi non avevano impensierito troppo il primo ministro russo, definito "un capo branco", descritto come Batman. "Non mi sembra una catastrofe", aveva commentato Putin sulla tv americana, intervistato da Larry King. Ieri però New York Times e Guardian hanno tirato fuori l'artiglieria pesante nei confronti della Russia e dell'uomo attorno a cui ruota un'"autocrazia corrotta" in cui il denaro ha preso il posto dell'ideologia comunista. Così dicono le fonti sentite da John Beyrle, ambasciatore americano a Mosca. In Russia i partiti politici lavorano fianco a fianco con i gruppi mafiosi, le forze dell'ordine proteggono i racket, le spie usano i boss per gestire insieme il traffico d'armi, le tangenti sono un sistema fiscale parallelo che mantiene polizia, funzionari pubblici, servizi di sicurezza.

E al centro di tutto ci sarebbe Putin, con le sue ricchezze ammassate all'estero grazie soprattutto all'energia. I dispacci di WikiLeaks riprendono accuse emerse due anni fa: il legame tra Putin e una società di trading petrolifero basata in Svizzera, Gunvor, in mano a un vecchio amico, Gennadij Timchenko. Denaro, petrolio, una cricca corrotta: "Moccio spiaccicato su un foglio di carta", così Putin aveva commentato le accuse nel 2008. "Dicerie ridicole senza un fatto che le sostenga - si indigna oggi il portavoce del premier, Dmitrij Peskov - se i telegrammi sono autentici c'è da stupirsi che un diplomatico americano scriva spazzatura simile". A Soci qualcuno scuote la testa: "Noi mafiosi? E gli altri paesi allora?". Però chiedono dove sta scritto, perché la tv pubblica parla di WikiLeaks in modo molto giudizioso, centellinando le notizie. Ora, del resto, c'è da pensare ai Mondiali.

 

 

 

 

Eni in Uganda, smacco per Tullow ma la partita non è chiusa

di Elysa Fazzino22 gennaio 2010

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L'Eni sembra avere il vento in poppa e la stampa internazionale segue con attenzione le sue mosse. Fa notizia sui media anglosassoni la partita dell'Uganda, dove il gruppo italiano ha ottenuto il sostegno del governo di Kampala alla vendita degli asset petroliferi di Heritage Oil. L'Eni ha offerto 1,5 miliardi di dollari per l'acquisizione.

"L'appoggio all'Eni dell'Uganda è uno smacco per Tullow", titola il Financial Times. La compagnia britannica Tullow Oil, proprietaria al 50% di due ricchi giacimenti petroliferi sul Lago Albert, vuole esercitare il suo diritto di prelazione sull'altro 50% che appartiene a Heritage Oil. Ma il governo ugandese è pronto a porre il veto sul diritto di prelazione di Tullow. Un duro colpo per Tullow e il suo piano da 1,35 miliardi di dollari per l'acquisto degli asset ugandesi di Heritage Oil.

Hillary Onek, ministro dell'energia dell'Uganda, ha messo in forse i progetti di Tullow – spiega il Ft - "abbandonando la sua precedente neutralità" e annunciando che il governo è favorevole al piano Heritage-Eni. In una conferenza stampa, Onek ha detto che il governo non ha esercitato il suo diritto di bloccare la prelazione di Tullow sulla vendita di Heritage all'Eni, ma ha aggiunto: "Se necessario, il governo metterà il veto".

Nonostante questa minaccia, precisa il Ft, una nota scritta lascia la porta aperta a Tullow: "Il governo sosterrà ogni processo simile purché non crei monopolio, migliori la "early production" e l'aggiunta di valore".

L'Eni, nota il quotidiano inglese, si è detta "molto lieta" delle dichiarazioni del governo ugandese. A Kampala, nota il Ft, gli analisti dicono che Heritage ha sempre avuto migliori relazioni con il governo. L'azione congiunta di lobby da parte di Heritage ed Eni – ricorda il quotidiano - ha incluso una visita a Kampala del ministro degli Esteri Franco Frattini.

La partita tuttavia non appare chiusa. Il Financial Times osserva che Tullow intende ancora cercare di convincere il governo: il suo Ceo, Aidan Heavey, è oggi a Kampala. Quando aveva annunciato l'intenzione di esercitare il suo dritto di prelazione, non aveva detto con quale compagnia intendeva fare un accordo. La mancanza di un partner ha preoccupato il governo ugandese, osserva il Ft.

Il Ceo di Tullow – informa il Wall Street Journal - incontrerà oggi il presidente ugandese Yoweri Museveni e presenterà una lista di potenziali partner per lo sviluppo dei blocchi petroliferi.

Secondo gli analisti politici, precisa il Wsj, il presidente Museveni ha il potere di annullare le decisioni del governo e di dire l'ultima parola sulla vendita degli asset di Heritage. Citando l'Eni, il Wsj precisa che il gruppo italiano non ha nessuna presenza in Uganda.

Il Times di Londra sembra mettersi dal punto di vista della compagnia britannica con il titolo: "Il governo ugandese minaccia di sventare le grandiose ambizioni di Tullow". Il piano di Tullow di rafforzare la sua posizione in uno dei più grandi giacimenti petroliferi dell'Uganda è a "repentaglio", scrive il Times, dopo che il governo ugandese ha detto di essere a favore della proposta rivale di Eni.

Il Ceo di Tullow spera nei colloqui con il governo ugandese. Si legge ancora sul Times: "Siamo fiduciosi e speriamo che siano fruttuosi", dice un portavoce, aggiungendo che Tullow sta discutendo con potenziali partner per sviluppare i giacimenti.

In Africa, Tullow ha dato una notizia positiva con la scoperta di un importante giacimento di petrolio e gas off shore del Ghana. Il Guardian, in un suo blog, nota che ciò ha fatto risalire le sue quotazioni. Ma resta da combattere la battaglia dell'Uganda: "Tullow attualmente sta cercando di mettere alla porta l'italiana Eni e acquistare il controllo di uno dei più ricchi blocchi dell'Uganda".

Anche in Europa l'Eni si dà da fare. Trova spazio sul sito del quotidiano francese Les Echos la notizia Reuters sul recente accordo in Austria: "Eni acquista attività di distribuzione di ExxonMobil in Austria". Eni – si legge - acquisisce così 135 stazioni di servizio, la divisione industria e distribuzione di ExxonMobil e le sue attività nel campo del trasporto aereo civile negli aeroporti di Vienna e Linz. L'accordo deve ancora ottenere il via libera delle autorità di regolamentazione.

 

 

 

 

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